Ogni volta che si affaccia una nuova tecnologia, a livello di opinione pubblica cominciano a circolare analisi che parlano di una “rivoluzione in arrivo”, evocando passaggi epocali e l’immancabile necessità di stravolgere le proprie infrastrutture.
Il caso dell’edge computing non sfugge alla regola. La migrazione verso un sistema distribuito che sfrutta la Internet of Things (IoT) per affidare l’elaborazione dei dati ai singoli dispositivi viene infatti dipinta come una sorta di “inversione di rotta” rispetto al cloud computing, normalmente basato sull’utilizzo di grossi data center.
A ben vedere, però, le cose non stanno proprio così. Prima di tutto perché l’implementazione di una rete di dispositivi per l’edge computing è utile in particolari situazioni, quando cioè risulta conveniente dirottare l’elaborazione sull’edge per ridurre i tempi di latenza che comporta l’invio di dati “non raffinati”, o quando diventa problematico fare i conti con la necessità di avere una connessione stabile. I vantaggi, quindi, sono apprezzabili in ambiti specifici e non è detto che qualsiasi azienda possa trarne un reale beneficio. In secondo luogo, la raccolta dei dati è necessariamente affidata a un cloud center, che si trova quindi a “convivere” con l’infrastruttura edge.
In uno scenario pratico, è inoltre probabile che le due logiche (centralizzata e decentrata) convivano per soddisfare esigenze diverse, magari inserite nello stesso flusso di lavoro. Insomma: il panorama che si prepara è quello di un sistema ibrido, in cui la logica del cloud computing trarrà beneficio dai sistemi edge per quanto riguarda performance, stabilità e affidabilità. La “nuova rivoluzione”, quindi, avrà probabilmente la forma di un equilibrio tra centro e periferia che si collocherà nel solco già tracciato. Quello che si chiama, di solito e più semplicemente, evoluzione.