Lo scorso 13 marzo, Facebook, Instagram e Whatsapp sono rimasti “down” per la bellezza di 14 ore. Un blackout che, secondo gli esperti, potrebbe essere costato a Zuckerberg e soci 110 milioni di dollari. Se sui quotidiani e sui social la vicenda ha suscitato commenti tra lo sconcertato e il divertito, accende i riflettori sulla criticità della business continuity nel settore IT.
Anche chi non ha le dimensioni (o il modello di business) di Facebook, oggi può difficilmente permettersi di sopportare uno shutdown di ore. Non solo per il possibile danno in termini di mancate vendite. Un “inciampo” del genere, sia per chi si muove nell’ambito business to consumer, sia (a maggior ragione) per chi lavora nel B2B, si somma infatti a un danno reputazionale che è difficilissimo recuperare. Chi vuole fare business con un’azienda che non è in grado di assicurare l’operatività dei suoi sistemi?
Buone pratiche, pianificazione degli interventi e ridondanza sono certamente strumenti utili per allontanare lo spettro di eventi simili, ma chi opera nel settore IT sa fin troppo bene che tutti questi fattori sono determinati da elementi estremamente volatili, come i flussi di dati con cui ci si trova a lavorare e il livello di complessità delle informazioni stesse. Insomma: le infrastrutture, oggi, sono soggette a un vero e proprio processo di “invecchiamento precoce”, che può dispiegare i suoi effetti nel giro di qualche mese o, addirittura, in poche settimane.
La soluzione? Rimanere sempre un passo avanti rispetto alle esigenze che abbiamo e ricordarci che, quando la nostra infrastruttura è semplicemente “adeguata”, è arrivato il momento di correre in avanti per prepararci al prossimo step di avanzamento. L’alternativa è quella di rischiare un vero epic fail e ritrovarci a dover correre ai ripari in situazione di emergenza. E le emergenze, si sa, non piacciono a nessuno.